Non mi era mai capitata fra le mani una lettura così sconvolgente; credetemi, non lo dico per amor di drammaticità. Non si tratta dei contenuti, è il romanzo nella sua interezza ad essere tanto disarmante. Sto forse cercando di spaventarvi? No di certo: ma ammetto che di fronte a quest’opera mi sento quanto meno intimidita. Eppure continuo a tornarvi col pensiero, è più forte di me; per questo motivo voglio parlarvene! Se cercate un libro fuori dal comune vi assicuro che non ne troverete altri come “
Il porto di Toledo”.
Anna Maria Ortese si esprime con un linguaggio personalissimo, fortemente ellittico e in parte inventato: tralascia verbi, omette articoli, utilizza un lessico in cui termini esistenti assumono arbitrariamente accezioni del tutto diverse (qualche esempio: “espressività” per poesia, “rendiconto” per racconto, “marine” per marinaio…). L’oggetto della narrazione sono gli incontri, le esperienze, la vita dell’
Ortese; vita che l’autrice racconta però completamente trasfigurata in senso fantastico, trasportando la Napoli nella quale è cresciuta in un’immaginaria Toledo dall’atmosfera misteriosa e conturbante. Ad ogni personaggio viene fatto dono di almeno tre nomi: Anna Maria stessa diventa Dasa, Damasa, Toledana, Figueira…